martedì 4 marzo 2014

Episodio 1: CHE BRUTTO AFFARE - JO CHIARELLO

L'idea di questo Blog è quello di creare una piccola biblioteca di perle musicali.
Ogni settimana posterò una canzone brutta. Dopo averla ascoltata insieme leggeremo il testo che tenterò di analizzare nei suoi aspetti retorici e di significato.



La canzone con cui voglio partire è una canzone alla quale - e i miei amici lo sanno bene - sono molto legata, si tratta di CHE BRUTTO AFFARE, canzone presentata nel Sanremo 1981 da una giovanissima (e decisamente non scaramantica) Jo Chiarello, raggiante nel suo abito viola.


Il testo, scritto nientepopo'dimenoche da Franco Califano con l'aiuto di Angelo Varano, sembra , fin dalle prime battute, voler aspirare alla più alte vette del trash. Ma leggiamolo:

 Che brutto affare,
ti amavo di un amore nucleare
ed ascoltavo senza contestare
le palle che sapevi raccontare,
io ti consideravo un superman
ma non sei neanche un man, sce-mo,
non sei nemmeno la metà di un man.

Fin dalla prime parole notiamo il carattere profondo del testo: il verbo all'imperfetto ci fa capire che l'amore è ormai finito mentre l'aggettivo nucleare è un chiaro segnale dell'introspezione e dell'intimità di questo sentimento. La donna si fidava ciecamente del suo amato ma questa fiducia era malriposta, l'idealizzazione dell'amante porterà infatti ad una cocente delusione. Notiamo l'aggettivo scemo alla fine di un verso ipermetro, a voler enfatizzare questa particolare caratteristica dell'uomo che straripa e fluisce oltre il testo. L'aggettivo rappresenta, infatti, il punto centrale della delusione amorosa, insieme al binomio superman / man che può richiamare alla mente un uomo in slippini rossi e calzamaglia blu ma anche - addirittura - Nietzsche, d'Annunzio o Freud.

 Che brutto affare
l'aver sbagliato in pieno a valutare,
sei uno scoppiato da dimenticare,
pensavi fossi un'oca da spennare
piuttosto il pollo l'ho pelato io,
ci son caduta un po', sce-mo
ma adesso il gioco lo comando io.

La seconda strofa aggrava il motivo della fiducia tradita perché la donna qui definisce il suo amato come un fraudolento: ha tentato di ingannarla (voleva spennarla) e questo lo rende non solo un traditore, ma, nello specifico, un traditore-verso-chi-si fida - Dante l'avrebbe quindi fatto ghiacciare nel Cocito- ma, fortunatamente, la donna riesce a capire per tempo l'inganno e capovolge la situazione. Come effetti retorici notiamo sicuramente l'allitterazione del suono p presente in tutta la strofa. Insistenza fonica che potrebbe voler sottolineare il tono di scherno della donna.

 Che brutto affare,
non m'hai insegnato neanche a far l'amore,
capisco adesso che non ci sai fare,
parlavi bene e razzolavi male. 
Io ti consideravo un superman
ma non sei neanche un man, sce-mo,
non sei nemmeno la metà di un man. 

E' palese che come rincaro alla sua invettiva, la donna voglia ledere il maschio in ciò che egli ha di più caro: la sua virilità. Dalla citazione proverbiale intuiamo che l'uomo in questione amava vantarsi - ingiustificatamente, pare - delle sue prestazioni. Notiamo qui le rime imperfette affare/amore e fare/male che rappresentano un'eccezione in relazione alle altre strofe (tutte monorime in -are). Probabilmente l'autore vuole in questo modo farci cogliere lo scarto ineliminabile che esiste tra il bisogno d'amore (e la sua idealizzazione) e la dura realtà che ci mette di fronte ad esperienze demotivanti.



 

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